domenica 12 maggio 2013

FISCO: PRASSI E GIUSTIZIA



Ernesto Ruffini, avvocato tributario, esordisce nel suo articolo Fisco.2 con il “principio” L’evasione fiscale è un furto. Dà per scontato che il ladro è chi non paga le tasse e che il derubato è lo Stato.
Ciò è indubbio nel paradigma iuspositivista, che fa da sfondo a tutto l’articolo. Lo Stato decide che l’evasione fiscale è un furto, e le leggi, anch’esse di Stato, avallano la decisione con tutte le conseguenze civili e penali.
Nel paradigma iusnaturalista, però, il furto non può farla da “principio”. Viene invece definito come “appropriazione indebita e occulta di una proprietà altrui”, alla luce della virtù sociale della giustizia, definita 2000 anni fa da Papiniano come “volontà costante di dare a ciascuno il suo”. In questo paradigma, quindi, è ingiusto tanto non dare a uno il suo quanto dargli il non suo. Lo Stato commette la doppia ingiustizia.
Nello stesso paradigma lo Stato ha doveri ben definiti, per finanziare i quali ha bisogno di soldi:  governare, amministrare la giustizia, difendere la società da possibili nemici, rappresentare il paese all’estero ed emettere un mezzo di pagamento che permetta ai contribuenti di pagare le tasse. Quest’ultimo è il dovere che ci interessa.
Ebbene, questo dovere lo Stato non lo espleta. Invece, e senza consultare i contribuenti, prende a prestito credito emesso da terzi, e tassa il valore aggiunto dal lavoro dei cittadini per pagarne l’interesse, che è composto e quindi esponenziale. Il risultato matematicamente certo di codesto operato è che il debito supererà prima o poi la quantità di denaro in circolazione, finendo per ammazzare la gallina che depone le uova d’oro. Lo Stato toglie il suo a chi lavora per darlo a chi scrive su un pezzo di carta “mi devi tot” con la sola fatica di alcune ditate alla tastiera di un computer.
Lo Stato toglie il suo a chi lavora in quattro maniere ben sperimentate:
1.  L’imposta sul reddito, che colpisce  la produzione;
2.  Le imposte indirette, che colpiscono il consumo;
3.  Le dogane, che colpiscono il commercio internazionale;
4. E l’IVA, che colpisce le transazioni commerciali domestiche, e che merita un trattamento a parte.
Per il momento limitiamoci a considerare che tutte e quattro le maniere sottraggono sangue all’economia di produzione per convogliarlo a elementi improduttivi, 98mila dei quali addestrati a fare uso di forza, anche armata, per costringere a pagare chi si sente ingiustamente tartassato. Non sorprende quindi che chi può si difende con l’evasione.
“IVA Madre di Tutte le Evasioni”, dice Ruffini. Certo. Che l’IVA sia la più assurda e controproducente di tutte le imposte lo si vide nella Spagna del ‘500, dove la si conosceva come alcabala.[1] Non ci volle molto ad accorgersi che i costi di esazione superavano gli introiti, e quindi si cessò di applicarla dato il danno evidente all’economia.
Questo è ancora vero, ma lo Stato moderno aggira il problema imponendo la contabilità fiscale agli operatori economici, senza pagarli. Cioè ri-introduce l’istituto della schiavitù, che rientra dalla finestra dopo esser stata estromessa dalla porta nell’arco del millennio precedente. Così facendo azzoppa vieppiù l’economia di produzione, dato che i contribuenti sono costretti a distogliere l’attenzione dal loro lavoro per espletare quello dell’Agenzia delle Entrate. Come ebbe a dire James Robertson (1928-):
“Dopo il paradiso perduto, è perfettamente possibile immaginare Satana riunito con Beelzebub, Moloch, Belial e il resto del suo gabinetto, per progettare il sistema fiscale più dannoso possibile da proporre all’umanità. Avrebbero potuto far di meglio di quello che abbiamo”?[2]
Ma non è tutto. Ruffini auspica l’uso massiccio dell’elettronica per “consentire al Fisco maggiori controlli” e per “semplificare gli adempimenti e ridurre i costi”, organizzando il tutto in modo ammirevole. Ma di che “controlli” si tratta? Quelli al cittadino, che vede il suo campo di azione restringersi sempre di più ad opera di uno Stato invasore e fuori da ogni controllo esso stesso. Cioè, nemo custodit ipsos custodes.
È venuto il momento di chiedersi: è possibile una politica fiscale innovativa
·   secondo giustizia, cioè che dia a ciascuno il suo, Stato compreso?
·   A buon mercato, senza dover quindi impiegare un’armata di 68mila Fiamme Gialle e una di 30mila dipendenti improduttivi?
·  Efficiente al punto di invogliare i contribuenti a pagare le tasse senza neanche pensare di evaderle?

In ipotesi di lavoro e per ottenere i risultati appena ventilati immaginiamo di spostare la nostra attenzione fiscale (l’imponibile) dal valore aggiunto dagli sforzi di chi lavora al valore sottratto alle risorse naturali del paese, e quindi alla sovranità statale. Mi spiego.
Codeste risorse naturali o comuni sono suolo, acqua, aria, spettro elettromagnetico e spazio aereo. Considererò solo il primo.
Il padrone di un’auto parcheggiata in centro città paga per il diritto di occupazione di una superficie di circa 10m2, cosicchè a 1€/ora, l’occupazione gli costa 8€/giorno, ossia 80 centesimi/m2.
Si tratta di una tassa giusta. Il quid pro quo è immediato e ovvio. L’automobilista non è il padrone dei 10m2, ma l’occupante temporaneo. E sia che parcheggi una Rolls Royce o un macinino miracolosamente scappato alla rottamazione, paga sempre i suoi bravi 80 centesimi/m2.
Supponiamo ora che la stessa città abbia 10km2 di edifici, assimilabili ad automobili parcheggiate permanentemente. Alla stessa tariffa, codesti edifici contribuerebbero agli introiti municipali ben 80 milioni di €/giorno.
L’importante non sono i calcoli ma il principio. La rendita da suolo spoglio viene fatta esistere non dall’automobilista, ma dalle attività economiche di chi vi lavora attorno, in ultima analisi dalla densità di popolazione. Giustizia vuole quindi che il 100% del frutto di chi lavora negli edifici debba andare a costoro, e che il 100% della rendita da suolo spoglio debba ritornare alla comunità che ne ha causato l’esistenza (codesta rendita è nulla dove non c’e popolazione).
Questa la soluzione di Henry George (1839-1897) risalente a 130 anni fa e ribadita da Silvio Gesell (1862-1930) nel suo Ordine Economico Naturale ai primi del secolo scorso.
L’Italia copre una superficie di 300mila km2, o 30 milioni di ettari o 300 miliardi di m2. In Italia vi sono 8mila e rotti comuni, con popolazione omogenea se rurali, eterogenea se urbani. I comuni potrebbero fare gli esattori di imposta fondiaria, esclusivamente in termini di superficie occupata, da patteggiare con l’occupante. Vediamo i vantaggi, ingenti, di una tale operazione:
·  Si ritornerebbe al principio della tassazione collettiva patteggiata, che era la norma   prima che lo Stato bodiniano e rivoluzionario la ribaltasse;
·   Sarebbe infinitamente più facile e meno costoso raccogliere imposte da 8mila centri che ficcare le mani in tasca a milioni di contribuenti;
·   L’evasione sarebbe impossibile: la terra non si può nascondere;
· Idem per la speculazione. Gli occupanti di un terreno improduttivo o si affretterebbero a farne uso per non pagare un’imposta a vuoto, o lo cederebbero, ma senza guadagnarci su;
· I recidivi verrebbero puniti semplicemente non proteggendo il diritto di occupazione;
·  L’unità fiscale, metro quadrato in città, ettaro in campagna o anche kilometro quadrato in lande disabitate, renderebbe l’intero territorio nazionale fiscalmente produttivo;
·  Il canone sarebbe minimo e perfettamente aggiustabile all’entità della spesa pubblica, date le dimensioni dell’imponibile.
·    Due superfici equivalenti, nella stessa località, pagherebbero lo stesso, per cui chi lavorasse di più guadagnerebbe di più e meno tasse pagherebbe proporzionalmente.
·    E le quattro tasse-tortòre sopraelencate potrebbero benissimo sparire.
Ma “possibile” non vuol dire “fattibile”. Chi contesterebbe una simile proposta di tassazione giusta? Gli evasori reali, cioè i terratenenti che da generazioni godono di reddito da non lavoro; i poteri forti internazionali, che regolarmente attuano la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite, e gli operatori della truffa conosciuta come riserva frazionaria bancaria.
 Questi ultimi evadono non la giusta tassazione fondiaria, ma quella monetaria. La moneta, e in particolare la sua circolazione, è una risorsa artificiale, anch’essa con valore sottratto tassabile. Esiste un esempio storico di tassa (minima) sulla circolazione monetaria che invogliò i contribuenti a pagare le tasse volentieri e anche in anticipo. Facciamo un flashback di 80 anni.
A Wörgl, cittadina e nodo ferroviario nel Tirolo austriaco, nel 1932 la moneta scarseggiava, le industrie chiudevano e infuriava la disoccupazione. I 350 disoccupati di Wörgl (su 4.200 abitanti) sollecitavano aiuto dal borgomastro Unterguggenberger (1884-1936).
Costui aveva letto Gesell durante la semipovertà delle crisi del 1907-08 e 1912-14, che gli avevano lasciato la tubercolosi che lo avrebbe portato alla tomba a 52 anni. Ma conosceva il rimedio, e si mise all’opera.
Dopo un paziente lavoro informativo e istruttivo presso i piccoli impresari, negozianti e professionisti, il 5 luglio proclamava:
 “La causa principale del barcollo dell’economia è la bassa velocità di circolazione della moneta. Questa progressivamente sparisce dalle mani dei lavoratori come mezzo di scambio. Filtra invece nell’alveo dove scorre l’interesse, finendo con l’accumularsi nelle mani di pochi, che invece di riversarla sul mercato per acquistarvi beni e servizi, la trattengono per specularvi su”.
Il municipio emise i suoi Bestätigter Arbeitswerte (Certificati di Lavoro) valorati alla pari con lo scellino ufficiale, ma ogni certificato per 1, 5 e 10 scellini, pur mantenendo un potere d’acquisto stabile, scadeva dopo un mese dall’emissione a meno di non rinnovarne la validità con un bollino del valore dell’1% sul nominale, acquistabile in municipio. Il quale, da parte sua, accettava i certificati come pagamento di imposte.
Non era obbligatorio accettarli. Le alternative erano:
  • Depositarli in banca a interesse 0%. La banca se ne sbarazzava immediatamente, o prestandoli o pagando salari e fatture.
  • Cambiarli in scellini ufficiali con uno sconto del 5% sul valore nominale.
Il municipio ne fece stampare 32.000 unità. Tre giorni dopo avere emesso i primi 1.000, il gettito erariale salì a 5.100 scellini, risultato di pagamenti arretrati e della rapida circolazione. Questa raggiunse una media di 5.490 scellini, cioè poco più di un irrisorio scellino a persona, che però procuravano lavoro e prosperità a Wörgl più di quanto lo facessero i 150 scellini/persona della Banca Nazionale. Come aveva predetto Gesell, la velocità di circolazione era la chiave: scambiandosi 415 volte in 14 mesi, contro le 6-8 volte della moneta ufficiale, quei 5.490 scellini mossero beni e servizi per ben due milioni e mezzo. Il municipio, con le casse continuamente ripiene da un lato e svuotate dall’altro, costruì un ponte sul fiume Inn, asfaltò sette strade, rinnovò le fognature e le installazioni elettriche, e costruì perfino un trampolino di salto con sci, per un totale di poco più di 100mila scellini. Per avere un’idea del potere di acquisto, lo stipendio del borgomastro era di 1.800 scellini mensili.
Al principio c’era chi sghignazzava, chi gridava alla frode o chi sospettava contraffazione. Ma i prezzi non aumentavano, la prosperità sì e le tasse venivano pagate prontamente e immediatamente ri-investite in lavori e servizi pubblici. I ghigni si trasformarono ben presto in espressioni di stupore e i lazzi in voglia di imitazione. Ai primi del 1933 circa 300.000 cittadini del circondario erano lì lì per estenderne l’esperimento.
Ma la Banca Nazionale lo cassò e Wörgl tornò alla depressione.
Una imposizione fiscale secondo giustizia, quindi, invoglierebbe anche i cittadini ad un comportamento fiscalmente corretto: ognuno, Stato compreso, avrebbe veramente il suo.

Silvano Borruso




[1] E a causa della quale la Spagna di Filippo II perse i Paesi Bassi.
[2] The Alternative Mansion House Speech, 4 settembre 2000.

1 commento:

  1. Interessante, farò girare a un po' di gente, anche se alla fine si torna al punto principale della questione: SOVRANITA' MONETARIA!!! Bruno

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